lunedì 17 novembre 2014

Non un'altra recensione di Dark Souls

Ero lì, stavo per mettermi a farlo, stavo per scrivere della mia esperienza con Dark Souls, delle bestemmie, della soddisfazione nel battere ogni boss, della profondità delle meccaniche ruolistiche. Ho pure iniziato a scrivere qualche riga.
Solo che.



Solo che, mentre scrivevo, avevo una strana sensazione di deja-vu: stavo praticamente riscrivendo pezzi delle decine di recensioni, commenti, opinioni, riflessioni che mi è capitato di leggere su Dark Souls, e indovinate un po’, parlavano tutte delle bestemmie (perché non c’è una recensione di Dark Souls che non accenni alle bestemmie, vi sfido a trovarla), della soddisfazione nel battere ogni boss, della profondità delle meccaniche ruolistiche. Quindi mi sono detto: perché aggiungere un tassello a un mosaico già finito? Che Dark Souls sia un bel gioco lo so io che l’ho giocato e lo sapete voi ancor prima di visitare questo blog.


Quello che voglio fare ora è, prima di tutto, proporvi, in maniera stringata, il mio parere su Dark Souls, in una recensione formato baby.

Dark Souls, action-RPG che è difficile, muori spesso ma ti diverti, bestemmi molto (eccoci), ambientazione fighissima, design dei boss ULTRA-FIGHISSIMO, level design OMMIODDIO SPOSTATEVI TUTTI, gioco che forma il carattere. Difetti: un leggero calo della profondità di gioco verso il finale, una fisica un po’ meschina (volutamente?), il filtro di Instagram sparato sullo schermo ad ogni cambio di ambientazione. Voto: 8.5. Fine, ciao, alla prossima.

Quello di cui voglio parlare oggi, egregi signori, è il motivo per cui Dark Souls ha avuto il successo che ha avuto.
Dark Souls, prima di tutto, sembra aver dimostrato che la difficoltà vende. Quello che penso io, invece, è che non sia totalmente vero, anzi, forse forse non è vero per niente.


Seguitemi in questo trip mentale, la questione è un po’ complicata.
In parecchie recensioni leggo di giocatori che riscoprono con piacere quel livello di difficoltà “hardcore” dei giochi di un tempo, e ci sta. So bene quante volte il pad del NES o dello SNES è volato contro la televisione durante una sessione a Super Mario, so bene che i giochi di una volta erano più difficili (ed è vero, non è una questione soggettiva, i videogiochi degli anni 80-90 erano molto più punitivi rispetto ai pluricheckpointati di oggi), eppure sono convinto che nessuno, ai tempi del primo Super Mario Bros, lodasse il titolo Nintendo solo ed esclusivamente perché era difficile. Mario non ha fatto della difficoltà il suo successo: non voglio dire che non fosse impegnativo, ma il merito dell’idraulico era soprattutto quello di proporre un platform basato su un level design sempre fresco e vario. Perché? Beh, perché era lo standard. Passando agli anni 90-primi 2000, anch’io ricordo che ci misi dei mesi per finire il gioco di Bugs’ Life per PS1. Eppure, quando ripenso a quel gioco non penso alla difficoltà con cui l’ho portato a termine, quanto alle ore di divertimento che mi ha dato.


La domanda, quindi, è: perché Dark Souls? Non è nemmeno così difficile, ma soprattutto non è nemmeno il primo della sua stessa serie. Perché in pochissimi hanno giocato Demon’s Souls?
Sottolineo che non si sta cercando, da parte mia, di minimizzare i meriti di Dark Souls, che, ripeto, mi è piaciuto molto, seppur con i suoi difetti.
Il fatto che, ai giorni nostri, ci sia questo mito della “grande sfida che i videogiochi non offrono più” sicuramente ha dato linfa vitale a un gioco che altrimenti sarebbe stato nientemeno che un bel gioco di nicchia, ma ancora non mi spiego l’atteggiamento di disinteresse verso Demon’s Souls, che i più hanno recuperato solo dopo aver finito Dark.

Il potere mediatico conta? Sì, conta tantissimo. E non parlo tanto delle recensioni (che comunque condizionano non poco le menti dei lettori), quanto dell’influenza che possono avere persone come gli youtuber che fanno gameplay. Ora non voglio aprire la questione su questo genere di youtuber perché poi non ne esco più, ma dico solo che anch’io mi sono divertito molto a vedere yotobi giocare a Dark Souls e che questo è sicuramente stato un incentivo all’acquisto. Eppure non mi sento di dire che l’intero successo commerciale di questo gioco sia da imputare ai soli gameplayers.


La verità è che, per quanto sembri scontato, non ci sono leggi assolute che determinano se un gioco venderà o meno. Il successo di Dark Souls (e del suo seguito e, solo dopo, del suo predecessore) è arrivato inaspettato così come, contro ogni previsione iniziale, la carriera dell’idraulico Nintendo si sta rivelando fiorente e prospera. Alla fine si tratta di un action-RPG classico, per niente innovativo, e che basa la sua difficoltà in gran parte su punizioni e fisica bastarda. Formula che funziona, ripeto, ma che non dovrebbe fare da appoggio a tutto il gioco. Nel mulino che vorrei, Dark Souls non dovrebbe vendere perché è difficile, ma perché è divertente, e la cosa ironica è che fa proprio questo, solo che la maggior parte degli acquirenti non se ne rende conto: comprano un gioco perché leggono che è difficile e si trovano tra le mani un’avventura epica in grado di trasmettere grandi emozioni.
Questo è Dark Souls, non “il gioco difficile”: il gioco emozionante. Il fatto che abbia totalizzato oltre due milioni di copie vendute dipende, probabilmente, da questo fatto, perché un gioco difficile non è necessariamente divertente.


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