Bentornati a COMING OUT, la rubrica che non vi piace leggere, perché contiene verità che non
vorreste sentire. La confessione di oggi riguarda un autore che potremmo
definire iconico, forse uno dei nomi giapponesi più noti in Occidente, a parte
quello del più costoso sarto giapponese (Tekucho Sumisura, per chi non lo
sapesse). Akira Toriyama è nientemeno che il papà di Dragonball, un manga che dire che ha fatto storia è dire poco. Eppure
oggi sono qui per tirargli le orecchie, in un post dal titolo volutamente
provocatorio, stile Coming Out.
Siamo negli ultimi anni del secondo millennio. I
lately 90s scorrono lungo la mia infantile pelle tra gli Street Sharks, i Pokémon
e Crash Bandicoot. E Dragonball, ovviamente.
Non ho memoria di quando ho iniziato a guardare Dragonball, non ricordo un giorno in cui
mi sia chiesto chi fosse Goku o quel ragazzino senza capelli con sei puntini
sulla fronte e una passione smodata per la morte. Probabilmente ha sempre fatto
parte della mia vita, sin dall’ultimo trimestre di soggiorno nell’utero
materno.
Gli anni passano, e dopo 212 volte che la serie
totale è stata riproposta su Italia 1, posso dire di conoscere a memoria ogni
risvolto della trama, dall’inizio alla fine. Vado alle elementari, parlo con i
miei compagni di classe, parlo con Catoblepa, parlo con la mia prima cotta, di Dragonball.
No, non è Amarcord,
è un post di SpazioTivo.
Comunque, Dragonball
è entrato così prepotentemente nella vita dei bambini nati negli anni 90 che è
ormai assodato, nelle loro menti, come il fatto che uscire con l’ombrello
faccia automaticamente smettere di piovere. A quel punto, un giorno casuale
della terza elementare, decido quindi di lasciarmi Dragonball alle spalle e continuare con la mia vita. Oddio, l’ho
fatta più drammatica di quanto in realtà fosse, diciamo che me ne sono
dimenticato.
Poi, negli anni delle medie, sul retro di una rivista di videogiochi vedo Goku con la
bandana e una spada.
“Mmh, ma questi personaggi li ho già visti… Dragon Quest? Meh, sembra Dragonball, però l’ambientazione è
diversa… Oh vabbè, mi faccio un panino”. Alle medie ero grasso.
La cosa sembra esaurirsi lì, finché, qualche mese
dopo, arrivo a completare una sorta di “tessera fedeltà” di un negozio di
videogiochi vicino a casa mia, che mi dà diritto a portarmi a casa, oltre all’ultimo
gioco comprato, anche un gioco aggratise.
E mi casca l’occhio su Dragon Quest.
Quel Dragon Quest che avevo visto sul
retro di quella rivista di videogiochi. Quel Dragon Quest con Goku con la bandana.
Massì.
Inserisco il gioco, ma solo dopo essermi
sufficientemente trastullato con l’acquisto che mi ha fatto completare la
tessera (Ape Escape 3, capolavoro del
mondo), e riconosco delle meccaniche di un gioco che amo: Final Fantasy. Come posso non amare Dragon Quest? Non posso, infatti.
Il caso vuole che Dragon Quest VIII fosse uno dei migliori J-RPG di due generazioni
fa, difficile da non apprezzare: vasto, difficile, appassionante, vasto, pieno
di cose da fare, vasto. E, in più, questo design che mi ricorda Dragonball. Ma ehi, siamo alle medie, l’Internet
sta cominciando a bussare alle porte della nostra produttività, mi bastano due
click e scopro questo nome: Akira Toriyama, autore di Dragonball e, ovviamente, del design di Dragon Quest.
Vi ricordate quando vi dicevano "Tutto quello che vedete è esplorabile" ed era vero? |
Mi spolpo il gioco e decido, ancora una volta, di
salutare definitivamente Toriyama e proseguire con la mia vita. Di nuovo, la
scena è stata in realtà molto meno drammatica.
Con gli anni il mio interesse verso il mondo
videoludico si accresce e, oltre alle riviste cartacee (che abbandonerò poco
dopo l’inizio delle superiori) inizio a seguire alcuni siti di notizie su
videogiochi (anche se il mio preferito resta SpazioTivo). Sono gli anni del
Nintendo DS e dei remake dei primi Dragon
Quest, appunto, su DS. Sfoglio una rivista e vedo, stavolta, un incrocio tra
Goku e Trunks, con i capelli lunghi.
Solo allora scopro che il Dragon Quest che avevo giocato anni addietro su PS2 era l’ottavo, e
solo allora scopro che Akira Toriyama è il designer di ogni capitolo della
saga. Per anni, sulle riviste e sui siti specializzati, non faccio che vedere
di nuovo Goku, con Bulma e Gohan sullo sfondo, |
Gohan e Nappa sullo sfondo, |
E finisco per dirmi oh, ANCHE BASTA.
Ma il culmine arriva nel 2012, anno della fine del
mondo e della fine dei miei rapporti con Dragon
Quest.
Vacanza con i miei, per fronteggiare la settimana
di noia che mi si prospetta, decido di investire 20 euro in qualcosa per
passare il tempo.
Ancora oggi non so perché abbia scelto Dragon Quest IX. Ricordo che la mia
intenzione iniziale era prendere Golden Sun, ma non l’avevo trovato. Mi sono
detto “Oh, alla fine è pur sempre una delle migliori saghe di J-RPG in
circolazione, fottesega della grafica”. Ma, ahimè, non è finita bene. Maledetto
Toriyama.
Perché in DQIX puoi creare il tuo personaggio, ma
si tratta di una libertà illusoria: per quanto tu ti sforzi, per quanto tu
possa cercare di scegliere il naso più particolare o l’acconciatura più
eccentrica, il tuo protagonista assomiglierà inevitabilmente a Goku o a Trunks.
O a qualsiasi altro Sayan. O a Bulma se si tratta di una donna.
Oltre a questo, scopro ben presto che persino i
mostri SONO SEMPRE GLI STESSI DA DRAGON
QUEST VIII, sempre quei fottuti slime e quei maledetti cavalieri seduti su
una palla di gomma, gli scheletri e le pozze d’acqua verde. La sensazione è
quella di non aver mai smesso di giocare a Dragon
Quest VIII. Stesso sistema di battaglia, stessi personaggi, stessa
ambientazione.
Dragon Quest
è una grande recita inscenata da Goku, Trunks e Bulma, che cambiano parrucca
10, 100, 1000 volte durante la messa in scena. Lo devo dire? E allora lo dico: ho abbandonato Dragon Quest IX per la grafica. Fischi, insulti, pomodori.
Perché Akira Toriyama avrà anche uno stile unico e
bellissimo, ma quello è e resterà lo stile di Dragonball. Forse proprio perché così unico e riconoscibile,
finisce per essere dannatamente pesante e indigesto.
Ma allora c’è da risollevare una delle più
dibattute questioni di filosofia videoludica: quanto conta la grafica in un
gioco?
Io sono sempre stato convinto che anche l’occhio
vuole la sua parte, ma che questo non significa che tale “parte” vada cercata
nel fotorealismo. Personalmente, ho sempre apprezzato giochi che, invece di, e
perdonate la rima, puntare su un livello di realismo da autoerotismo (che
finisce per essere obsoleto nel momento esatto in cui il gioco viene
pubblicato), offrissero uno stile grafico originale e riconoscibile. Ma cosa
succede quando lo stile non funziona? Beh, per quanto la cosa possa essere
superficiale, è dura continuare, e non biasimo chi abbandona. Nel caso di Dragon Quest, la colpa è certamente
anche quella di essere rimasto sostanzialmente uguale a se stesso, con un
sistema di battaglia che, francamente, per quanto mi riguarda comincia a
sentire il peso dell’età.
Mi rendo conto che, dopo 26 anni di Dragon Quest, cambiare stile grafico
sarebbe una mossa suicida di dimensioni pericolosissime. Ormai Toriyama È Dragon Quest, e Dragon Quest È Toriyama. Nei forum vedo ancora gente hypata dal
prossimo capitolo che scrive “Bello, mi piace lo stile di Toriyama”.
Lecitissimo. Del resto, non venderebbe così tanto se a nessuno piacesse lo
stile. Ma per quanto mi riguarda, giocare a Dragon
Quest è come guardare un cartone animato o un film straniero e riconoscere
la voce di Pino Insegno nel doppiaggio. Basta.
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